Premio In sesto 2013 - San Vito al Tagliamento

30 novembre - 19 gennaio 2014

Premio In sesto 2013: il luogo come arte

Il luogo come arte a cura di Giorgia Gastaldon

Commissione selezionatrice Angelo Bertani, Alessandro Del Puppo, Caterina Furlan, Denis Viva

Artisti selezionati Luciano Celli, Guerrino Dirindin, Chris Gilmour, Alessandra Lazzaris

Giunto al traguardo della quinta edizione, il Premio di scultura e installazione nello spazio urbano “In Sesto” conferma ancora una volta la sua vocazione: coniugare la sperimentazione artistica contemporanea con il tessuto storico del Comune di San Vito al Tagliamento. Quest'anno lo spazio per l'opera finale è stato individuato nella corte delle Antiche Carceri; all'interno di questo stesso complesso viene allestita la mostra del Premio: si ottiene così un maggior dialogo tra i progetti presentati dai quattro artisti ed il luogo per il quale questi stessi progetti sono pensati. Come di consuetudine il pubblico è invitato ad esprimere la propria preferenza, scegliendo una tra le quattro opere proposte: quella che otterrà il maggior numero di voti verrà poi realizzata, per abitare in modo permanente la corte delle Antiche Carceri. È inoltre allestita una selezione di opere dei quattro artisti, ciascuno presente in una sala di taglio monografico con una piccola sezione di lavori più o meno recenti. I vincitori delle edizioni passate sono stati: Massimo Poldelmengo (2009), la cui opera è visibile nella Piazzetta del Castello; il duo Marotta & Russo (2010) presente ora con un’installazione nel Parco Rota; Anna Pontel (2011) presso gli Ex Essicatoi Bozzoli; e Gianni Pignat (2012) con l'opera I segni di un sogno per il Giardino di Palazzo Rota ed una parallela mostra personale presso la Fondazione Furlan di Pordenone.

Vincitore Edizione 2014
Vince la quinta edizione de Il Premio In Sesto, con il 33% dei voti, il pordenonese Guerrino Dirindin. Il progetto da lui proposto, che verrà realizzato nel corso del 2014, è intitolato La gabbia dei sogni e dialoga con il luogo per il quale è stato pensato: la corte antistante le Antiche Carceri di San Vito al Tagliamento.
Al secondo posto si è classificata la goriziana Alessandra Lazzaris, con il 28% dei voti, mentre a pari merito in terza e quarta posizione si trovano il triestino Luciano Celli e Chris Gilmour, udinese d'adozione, che hanno entrambi raccolto il 19% delle preferenze. In tutto hanno espresso il loro voto 941 visitatori, record storico di partecipazione per Il Premio In Sesto.

Luciano Celli

Trieste 1940, vive e lavora a Trieste

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Metamorfosi / L'albero antropomorfo

Perché la metamorfosi?
Perché ci ricorda quanto la vita umana sia legata/dipendente/compenetrata con la vita del mondo vegetale;
perché siamo tutti abitanti dello stesso mondo;
perché i confini tra l’umano e il vegetale sono indistinti.

Perché un albero?
Perché è palese/simbolica espressione della natura, quindi della vita, quindi della continuità della natura.

Perché un cipresso?
Perché, in quanto pianta cimiteriale, porta con sé la memoria di un luogo di dolore e di morte.

Perché davanti alle carceri?
Perché le carceri sono testimonianza di vite coatte, sofferte, spesso di morte e il cipresso cimiteriale, nella sua realtà contraddittoria ne interpreta positivo-negativo, redenzione-morte.

Perché in quel punto del cortile?
Perché lì, prima del restauro, c’era un bell’albero di ciliegio, di cui s’intende ravvivare il ricordo della presenza.

Perché rivestito di foglie dorate?
Perché si vuole sottolineare la preziosità della vita naturale, vegetale e umana.

Perché gli specchi alle pareti?
Perché le figure compenetrate nell’albero guardano noi, ma anche, riflessa negli specchi, una scena su un palcoscenico in cui ci siamo noi visitatori e loro abitanti dell’albero. Che è il palcoscenico del mondo, in cui loro e noi siamo contemporaneamente spettatori e attori.

Luciano Celli

Il lavoro di Luciano Celli è incentrato sul tema del mito, inteso come base fondante di tutta la cultura Occidentale, elemento della memoria collettiva dei popoli, ma anche spazio di confronto tra l'individuo e la società. Da tempo l'artista lavora in particolar modo sul concetto di "metamorfosi": elemento leitmotiv di molte narrazioni mitologiche, titolo dell'opera di Ovidio, la metamorfosi viene interpretata da Celli come il cuore dell'evoluzione, quel processo per il quale le cose, che inizialmente sono in un modo, alla fine sono divenute altro. In tal senso l'interesse non è incentrato sul prodotto finale del processo di metamorfosi: Celli non parla dell'evoluzione nel suo punto più alto, ma concentra la sua attenzione sulla fase intermedia del cambiamento. Lo sguardo dell'osservatore è catturato mentre le cose succedono, in quella parentesi tra quello che c'era e quello che ci sarà, quando le due istanze – il passato ed il futuro – convivono in un ibrido, precario presente. La metamorfosi diventa così la base di tutto l'operare artistico, poiché è proprio attraverso questo operare artistico che la materia, che era qualcosa, diventa qualcos'altro: un'opera d'arte. Emblematico di quest'operazione è il qui presente lavoro Dafne (2003).

Guerrino Dirindin

Pordenone 1950, vive e lavora a Pordenone

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La gabbia dei sogni
Non si possono rinchiudere i sogni. La gabbia si torce e si apre alla poetica della creatività, si dilata e si modifica al sogno di libertà. L'acciaio potente del fabbro non può nulla al trasporto della poesia, che muta la sostanza del suo intimo deformando le sbarre in rami e la gabbia in albero, puntando verso l'alto, verso il cielo, la luce e la libertà, per uscire dalle anguste mura e mostrarsi all'esterno, fuori, quasi come un ciliegio vissuto nel ricordo.

Guerrino Dirindin

L'etimologia della parola “terra” potrebbe rimandare, scavando a ritroso, al significato di parte solida e asciutta del nostro mondo, in opposizione a quella “umida” del mare. Guerrino Dirindin ha da sempre fatto della terra la sua materia d'elezione attendendo, appunto, ch'essa s'asciugasse e divenisse solida, fissando la forma, nelle sue opere. La terra, tuttavia, non è solo materia e procedimento delle sue opere ma anche universo simbolico del suo agire, in cui vige un accordo fra il metodo e la sostanza: non solo la terra è il fine ma è anche il mezzo, non solo è la tecnica ma anche il significato. Dal richiamo alla sua umile concretezza sino ai riti ctoni, cioè a quei riti che dalle culture più primitive furono dedicate alla fertilità della terra e alle sue dee, Dirindin opera in simbiosi con essa, ne rispetta i tempi e ne conosce i simbolismi, la concretizza nei suoi “bozzoli” assimilando le architetture animali composte di terra o la solca nei suoi quadri come un contadino paziente. Il qui presente lavoro Lettere dal carcere è un'opera site specific, realizzata declinando il motivo della traccia, del solco sulla terra, alle misure e alla funzione della cella delle Antiche Carceri di San Vito.

Chris Gilmour

Stockport (Regno Unito) 1973, vive e lavora a Udine

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HMS Endeavour, HMS Resolution
Il lavoro che faccio è un'indagine sul materiale, sul senso degli oggetti e sul nostro rapporto con quelli che scegliamo per rappresentarci.
L’immagine della barca incisa sul muro mi ha molto colpito. Parla di un sogno di viaggiare, di seguire la libertà del mare aperto davanti a sé. Chiuso in cella, questa magnifica vista esiste solo nell’immaginazione.

Il progetto propone due modelli di barche storiche, realizzate, come sempre, in cartone recuperato. Le due barche sono quelle comandate da James Cook, l’esploratore inglese che per primo raggiunse l'Australia. Egli partì verso l’ignoto, una distesa sconfinata d’acqua che poi rivelò contenere un altro continente. Ironicamente, quel luogo d’approdo divenne in seguito – proprio negli anni in cui quest’edificio veniva usato come carcere – una colonia penale inglese.

 Le barche sono sigillate in teche di vetro: una protezione per gli oggetti che contengono, ma al tempo stesso sono celle ermetiche che le racchiudono, precludendo ogni scambio con il mondo. I vascelli parlano di un sogno di libertà: il sogno di viaggiare in mare aperto e di scoprire nuove possibilità;  ma la natura del materiale rende irrealizzabile questo sogno. In questo modo le opere esprimono, proprio attraverso la loro oggettiva precarietà, il fragile equilibrio tra desiderio e la realtà che ci circonda.

Chris Gilmour

Il lavoro di Chris Gilmour indaga quell'istanza per la quale l'opera d'arte si fa oggetto. Le sculture dell'artista, infatti, non sono altro che oggetti – prelevati dal mondo della realtà quotidiana, da quello della storia dell'arte o della progettazione architettonica – scelti, sezionati al fine di studiarne i particolari e la struttura, e semplicemente rifatti, per il tramite del cartone, in scala reale. La conoscenza del mondo passa così per le mani: la realtà per Gilmour è esperita nel momento in cui viene rifatta, gli oggetti sono conosciuti ricostruendone la struttura, con una perizia che solo il mondo artigiano conserva ancora oggi.
Non vi è nessuna differenza tra l'oggetto reale e l'oggetto rifatto se non il materiale scelto – il cartone – ed il fatto che l'opera d'arte è ovviamente priva di funzione. É proprio questo piccolo cortocircuito a catturare l'attenzione di Gilmour, attirato dalla piccola crisi che l'osservatore vive scoprendo che la funzione che l'oggetto gli suggerisce non si può in realtà mettere in pratica. D'altronde è proprio per aumentare questa familiarità tra lo spettatore e l'opera che Gilmour sceglie il cartone, così comune a tutti da essere esperito non come un materiale prezioso e prettamente artistico, come avviene per il bronzo ed il marmo, materie scultoree per antonomasia, ma come un elemento della propria quotidianità.

Alessandra Lazzaris

Palmanova (UD) 1966, vive e lavora a Gorizia

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Beichtstuhl / Confessionale
Un progetto per lo spazio esterno delle vecchie carceri mi ha fatto pensare al concetto di libertà in relazione alla nostra coscienza. Coscienza intesa eticamente come capacità di distinguere il bene dal male.
La privazione della libertà personale dà luogo ad una condizione di sospensione temporale e ad una mancanza, da parte di chi la vive per un tempo prolungato, di un ri-conoscimento quotidiano di se stessi e della propria identità. Confessionale è un luogo, esterno al carcere ma integrato nell'area di isolamento, concepito per una sola persona, nel quale ritrovare quel contatto con se stessi che nella cella ci è negato. Il luogo della coincidenza tra confessore e confessato. Uno spazio ristretto e intimo, quasi un corridoio, cieco, creato da una struttura in lamiera curvata, all'interno del quale, con due passi, si raggiunge uno specchio. Il riflesso della propria immagine nello specchio permette di ritrovare una relazione con
la nostra identità fisica e spirituale. Il ri-conoscimento e il riappropriamento di se dovrebbero indurre ad una confessione con l'unico giudice al quale rendere conto. Noi stessi.

Alessandra Lazzaris

Da sempre il materiale d'elezione della ricerca di Alessandra Lazzaris è la ruggine, processo di ossidazione del ferro, emblema del fluire del tempo che tutto corrode. L'artista cerca di "addomesticare" questo processo, inducendolo artificialmente, ma affidandosi anche al caso, vista l'impossibilità di gestire il processo d'ossidazione negli anni.
Il tempo, per il tramite della ruggine, è da sempre il cuore di questa ricerca, ma lo è ancor di più in quesi ultimi lavori: le Sindoni (2012), tecnicamente degli "strappi" di lavori datati circa a una decina d'anni fa, che fungono da matrici. Queste matrici, sulla cui superficie l'acido ha agito per anni, hanno un alto strato materico: l'artista vi stende sopra tessuti imbevuti di colla per poi strapparli, più volte. Da una sola matrice nascono tanti strappi, diversi tra loro perchè ciascuno ha portato via con sè un preciso strato di ruggine, dalla superficie sempre più giù, in profondità. Le Sindoni sono poi esposte in ordine cronologico, testimonianza del tempo: da un lato del processo di ossidazione del metallo negli anni, dall'altro dello "scavo" compiuto, strappo dopo strappo, dalla Lazzaris, che lavora fino a riportare la lastra di metallo quasi allo stadio di integrità originale.