Scatole Sonore

A cura di Denis Viva e Giovanni Rubino

Nel panorama ormai dilagante delle mostre a tema, l'edizione 2012 di Palinsesti sceglie di operare uno scarto. Al consueto tema, dunque, essa preferisce un sistema fluido, uno schema assai elastico di relazione tra gli artisti. Il titolo dell'esposizione è preso a prestito da un concetto di teoria musicale secondo il quale una “scatola sonora” è un diagramma astratto, una rappresentazione tridimensionale delle caratteristiche acustiche di un brano. Nel caso di questa mostra, invece, è sufficiente traslare questo significato in quello di stanze, di ambienti in cui coesistono suoni e oggetti, immagini, sculture, congegni, installazioni. Nei casi di Carlo Bach o Božica Dea Matasić, che lavorano prettamente con gli oggetti e la scultura, le loro opere vivono di una sospensione, di un silenzio che “chiama”, fa appello ad un fenomeno sonoro complementare che, in questa mostra, gli viene offerto dalle opere degli altri artisti che, invece, lavorano su entrambi i fronti o almeno su quello sonoro: Michele Spanghero, Ursula Berlot e Massimiliano Viel. Il risultato finale è un'articolazione di sale, di spazi acustico-visivi, nei quali muoversi ed esperire.

Il risultato finale è un'articolazione di sale, di spazi acustico-visivi, nei quali muoversi ed esperire. L'intento non è quello sinestetico di predisporre un ambiente immersivo, una Gesamtkunstwerk, un'opera d'arte totale nella quale assorbire l'attenzione e i sensi dello spettatore.

Carlo Bach

Colonia, 1967

L’opera Senza Titolo (Armadio), realizzata da Carlo Bach nel 2011, consiste in un armadio anni Cinquanta dalla cui serratura fuoriesce, lentamente ma inesorabilmente, un filo continuo di sabbia. Questi grani color oro, una volta sgorgati dalla toppa, vanno a depositarsi, in maniera casuale, sul pavimento sottostante: da una situazione compatta e ordinata questa sabbia, liberata, diventa protagonista di una totale discrezionalità nell’occupare lo spazio circostante. Non esiste modo per far tornare questi chicchi all’interno dell’armadio: come in una clessidra, che non possiamo però rovesciare e far ripartire daccapo, la fuoriuscita della sabbia è inarrestabile e irreversibile, come lo scorrere del tempo.

Nel secondo lavoro di Carlo Bach qui presente – Senza Titolo (2012) – torna la sabbia, materiale caro all’artista, applicata questa volta non tanto al tema del tempo, quanto a quello del suono, della parola. Dalle grate di un vecchio confessionale ormai in disuso lentamente la sabbia fuoriesce riversandosi sul pavimento. La valenza simbolica dell’oggetto scelto in quest’installazione sposta la riflessione dell’artista dal tema dello scorrere del tempo a quello del fluire delle parole, dei racconti, delle confessioni di cui inevitabilmente l’oggetto è stato testimone. È come se, in qualche modo, durante il suo normale ciclo d’uso questo confessionale avesse incamerato ogni singolo discorso fatto al suo interno, per tornare ora a riversare i suoni all’esterno, sotto forma di sabbia. Attraverso quest’associazione di immagini la sabbia stessa finisce per farsi rappresentazione visiva di quello che, originariamente, era un semplice stimolo uditivo.

La sabbia di entrambe queste opere, come sempre accade nel lavoro dell’artista, viene prelevata dalle spiagge di Lignano Sabbiadoro. Questo specifico materiale è infatti particolarmente caro a Bach, che ne apprezza sia la granulometria che il colore, elementi che hanno per lui una vera e propria valenza estetica. Allo stesso tempo, però, la scelta di questo peculiare materiale è legata alla biografia dell’artista: le spiagge di Lignano sono create dalla sabbia del fiume Tagliamento, cui Carlo Bach è legato fin dall’infanzia. (Giorgia Gastaldon)

Senza Titolo (confessionale), 2012
sabbia, confessionale antico.
197x115 cm

Senza Titolo (armadio), 2012
sabbia, armadio antico (dettaglio)
206x136 cm

Isola 10.9.12, 2012
sasso di fiume, argento
9 x 16 cm

Božica Dea Matasić

Zagabria, 1970

Panacea, o le 'panacee', di Božica Dea Matasić offre al nostro sguardo superfici polite, ovuli che non tradiscono nessuna imperfezione, prodotti di una società altamente tecnologica. Invitano il nostro tatto ad agire, sfiorale e toccarle. Amplificano il nostro movimento nello spazio, li possiamo percorrere e una volta spinti, interferiscono con la direzione dei nostri spostamenti. Panacea pone in dubbio il nostro senso dell’equilibrio, grazie ad una semplice meccanismo di pesi interni agli ovuli, che possono richiamare antichi ed artigianali giocattoli d’altri tempi. Matasić predilige la scultura quale tecnica per esprimere la sua visione del mondo, ma non disdegna di ibridare il dato sensibile delle sculture con il concetto.

Nel caso di Panacea – oltre all’ovvio richiamo alla tradizione filosofica greca e occidentale - già il titolo indica a quale problema si riferisce l’autrice: un mondo tecnologico alla continua ricerca di un sollievo ai mali che noi stessi abbiamo provocato. Il business della salute pisco-fisica si incrocia anche con quello dei beni materiali. Matasić può anche commercializzare le sue sculture come se fossero automobili, sulle pagine di giornali che ospitano annunci di compra-vendita tra privati.

Una tale operazione concettuale coinvolge altre sculture che, come Shifter, assumono configurazioni fitomorfe o zoomorfe. Oggetti da vedere e toccare, da sospendere al soffitto o da lasciare libere di galleggiare su superficie liquide o solide. Matasić per via concettuale e tattile, quindi, pone insieme due mondi, quello artificiale creato dall’uomo e quello che ha origine dai processi naturali.

A tratti la sua ricerca può ricondursi alla importante tradizione artistica croata del secolo scorso quando la scultura staccatasi da riferimenti neo-realistici, poté esplorare sia l’astrazione libera espressionistica sia quella più razionale e geometrizzante. Oltre ai riferimenti nazionali, tra cui Vojin Bakić (1915-1992) può essere la fonte diretta di certe forme di Matasić, non si può dimenticare che l’autrice continua a guardare con interesse le fila della tradizione minimalista - americana ed europea - e del concettualismo. Le sue sculture occupano lo spazio in modo che, aggregate per diventare environment, contaminano/modificano gli spazi umani e gli spazi della natura. (Giovanni Rubino)

Panacea, 2010-2012
piombo, resina poliestere, fiberglass, gelcoat, vernice metallizzata, vernice trasparente semilucida
180xø75 cm (cad.)

Shifter, 2003
resina epossidica, fiberglass, vernice metallizzata
300x200 cm

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Michele Spanghero

Gorizia, 1979

Michele Spanghero è un musicista e un artista visivo. Del connubio tra queste due attività, si informa la sua opera. Non si tratta però - e lo afferma egli stesso-, di una sinestesia tra immagine e musica, bensì di un procedere dalla forma acustica inizialmente congegnata (registrata, suonata, prodotta) al dispositivo materiale che la veicola. E, in ultima battuta, di un complessivo fenomeno visivo/sonoro che si sviluppa e si nutre dello spazio, offrendosi allo spettatore come un'esperienza di carattere integrale. La musica non procura l'accompagnamento alle sue installazioni, né quest'ultime hanno il compito di produrre fisicamente il suono che si ascolta. Piuttosto l'una media l'altra, vicendevolmente. L'acustica, proprio come nella nostra esperienza quotidiana, diventa inseparabile dallo spazio, dal volume, dai materiali e dal nostro interagire. E viceversa. Il sonoro non è mai il frutto di una percezione esclusivamente auricolare.

Q è un'opera realizzata appositamente per Scatole sonore, ma si origina a partire da precedenti ricerche dell'artista. Una cisterna vuota emette un suono registrato, captato facendo risuonare il suo stesso interno e rimodulando il risultato sonoro al computer. Per paradosso, il vuoto contiene la pienezza della sua stessa eco. Questo rapporto tra vuoti assume una presenza statuaria, diventa un mantra tecnologico che diffonde dal proprio vacuo interno una vibrazione continua e quasi ascetica. L'oggetto, la cisterna, staziona nella stanza, come fosse la trasfigurazione meccanica di un Buddha seduto.

Listening is making sense è un'installazione che risale al 2009, ma che muta incessantemente poiché si adatta, di volta in volta, all'ambiente circostante. Alcune travi di legno fungono da cassa di risonanza. Il suono, attraverso un software, è stato convertito in vibrazioni, in impulsi che vengono trasmessi alle travi e si propagano esclusivamente attraverso esse. Per ascoltare queste vibrazioni, in effetti, bisogna accostare l'orecchio al legno. Il suono torna al suo controsenso: si genera da un pieno e dal tatto, invece che dal vuoto e dall'udito. (Denis Viva)

Q, 2012
dur. 70 min. loop, cisterna metallica, subwoofer, audio system
160x150x150 cm

Stream I, 2012
dur. 4 min. loop, tubi in acciaio, bulloni, audio system
30x76x76 cm

Listening Is Making Sense, 2009-2012
dieci travi in legno (sez. 20cm x 4m), trasduttore audio, audio system.

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Massimiliano Viel

Milano, 1964

Massimiliano Viel è indubbiamente da considerarsi un musicista tout-court ma in quest’opera unisce le sue conoscenze tecniche con quelle di osservatore celeste. In Andromeda, l’autore spiega che ogni scatola “è la voce” di una stella della costellazione chiamata Andromeda ed emette un segnale elettronico che nella sua reiterazione è ripetuto e differente allo stesso tempo. Come il nostro DNA, i suoni hanno un proprio codice “stellare” per trasmettere alcuni dati scientifici, come la distanza delle stelle dalla terra, la loro luminosità, colore e la loro posizione sulla sfera celeste.

L’artista ha voluto stabilire una diretta connessione, a livello concettuale, tra la costellazione di Andromeda e le scatole, un rapporto tra cielo e terra così come nella cultura umana si è nei secoli tentato di attuare. Inoltre i suoni rilasciati dai “carillon” - oggetti che funzionano da emittente sonora - nello spazio circostante sono il prodotto di una sintesi elettronica, non sono quindi né costruiti partendo dalla musica tradizionale né frutto di una modificazione di rumori catturati dal mondo esterno.

Fin dai tempi di Pitagora, nella cultura greca e poi latina, si ipotizzò che le sfere celesti avessero un proprio suono, non udibile ad orecchio umano ma percepibile grazie al processo empatico che portò alla costituzione dei concetti di “numero” e di “armonia”. Tuttavia seguendo tale discorso si terminerebbe ad affermare una possibilità metafisica che è assente nelle intenzioni dell’autore. Il preciso calcolo matematico è alla base dell’opera di Viel – come per esempio in E-scape - e la tecnologia diviene il mezzo per esprimere una ricerca che non cede a nessuna seduzione dadaista.

Le scatole non sono ready-made e non pongono in crisi lo statuto dell’opera d’arte ma, forse in modo prosaico, seguono un’idea che semplicemente accompagna lo spettatore in un percorso concettuale e spazio-temporale. Infine, ricordando il mito greco, Andromeda, imprigionata per essere sacrificata ad una mostruosa creatura figlia di Poseidone, fu liberata da Perseo. Nella parodia del poeta Jules Laforgue, Perseo, troppo occupato dal proprio amore narcisistico, si dimentica di Andromeda che, respinta, s’innamora del suo carnefice. Nel gioco dell’arte, quindi, la forma non sempre è l’essenza di ciò che vediamo, così come le scatole sonore di Viel non sono le stelle ma ci invitano a volgere l’orecchio verso l'ambiente circostante. (Giovanni Rubino)

Andromeda, 2012
Sette scatole in legno (12,6x17,9x7 cm cad.), circuiti elettronici

Serenade for a quiet population, 2012
sound track loop, audio system
dur 1h

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Uršula Berlot

Ljubljana, 1973

Le opere di Uršula Berlot rappresentano un connubio tra pensiero creativo e reazione fisico-emotiva dell’osservatore: nelle opere del progetto Introspekcija/Introspection il fulcro concettuale è la registrazione e rappresentazione di “spazi mentali”, cioè immagini delle reazioni cognitive all’osservazione di opere d’arte. Si crea così una sorta di circuito chiuso nel quale l’artista aziona il suo processo creativo mettendosi nei panni dell’osservatore e registra scientificamente le reazioni provocate dalla lettura di un’opera che, in ultima istanza, vengono rimandate al pubblico.

Le sperimentazioni dell’artista partono dall’esperienza “fisico-ottica” nell’uso della luce e dell’elaborazione grafica di superfici trasparenti che richiamano alla mente le prime opere cinetiche e un’ispirazione di stampo surrealista: una parte della fase progettuale avviene per libere associazioni di pensieri, mentre l’altra si focalizza sull’aspetto percettivo di tale azione, alludendo ad ambiziose questioni filosofiche con un punto di vista quasi scientifico. La presenza del divino, il mistero della vita e la vastità dello spazio, sono temi che emergono dall’osservazione di opere come Metulj/Butterfly, che allude all’”effetto farfalla”nello spazio, e Privlačnosti/Attraction, che rappresenta il processo di cognizione; nella serie Spiralno lebdenje/Spiral Floating invece, la sensibilità degli spettatori è stimolata sul tema della quarta dimensione, poiché la luce viene riflessa su una superficie o su uno specchio e rimandata in uno spazio tridimensionale con la variabile del tempo d’azione su di esso.

Uršula Berlot ha attuato finora un processo di smaterializzazione della superficie pittorica, scegliendo materiali trasparenti come il plexiglass o intervenendo direttamente negli spazi espositivi delle sue installazioni. A questi dati concreti ha aggiunto la componente astratta fatta di luce o suono, che caratterizza le sue opere: l’interazione tra questi elementi e il coinvolgimento sensoriale dello spettatore portano ad un contrasto tra la coscienza che esso ha della parte sensibile dell’oggetto in esposizione, e l’inconscio, che lo porta a sentire ed interpretare la parte irrazionale. Lo stimolo ottico o uditivo diventa così stimolo cognitivo, parte dell’opera d’arte. (Giulia Giorgi)

Luminiscence, 2012
proiettori di luce, plexiglas, piattaforme girevoli, PVC, sound system
300x600 cm

Attractions/Similarities, 2005
quattro piattaforme girevoli Ø12 cm (cad.), magneti e polvere metallica.

Fractal, 2012
specchio, vetro, proiezione e riflessione luminosa
120x80 cm

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